08/08/2021   La palla è rotonda, ma se la facciamo rotolare ...






 

 

Qualche anno fa un grande amico cinese ci raccontava dell’amore sviscerato che i “gambler” nel suo paese avevano per la pallina del gioco della roulette.

Raccontava che seguendo il suo saltellare sulla ruota cercavano di capire in anticipo se il bacio della fortuna li avrebbe premiati o meno.

La piccola pallina rotonda ne premiava qualcuno, ma lasciava spesso a bocca asciutta (ed a tasche vuote) i più.

 

La palla e rotonda, lo si sa. E generalmente va dove vuole lei e non dove noi vogliamo che invece vada.

Ne sanno qualcosa i giocatori di tennis e quelli della pallavolo che talvolta per qualche centimetro perdono (o vincono) un torneo.

Ne sa molto di più chi deve tirare un rigore nei tempi supplementari di una interminabile partita di calcio e vede la palla angolata terminare su un palo piuttosto che cinque centimetri più in là dentro alla rete, o peggio fra le braccia di uno scaltro portiere.

Basta un piccolo soffio di vento che la palla rotonda va dove noi non vogliamo mai che vada.

 

Ma quando ci poniamo su una superficie piana o leggermente in discesa, ed invece di lanciarla la facciamo rotolare, riusciamo più facilmente a dominare il suo istinto bellicoso e assistiamo ad un movimento meraviglioso che ci ricorda quello che dovrebbe essere il gesto tecnico della marcia.

Se guardiamo la palla da dietro scopriamo che è sempre attaccata al terreno, anche se spingiamo un ovale da rugby. In quest’ultimo caso se la fortuna ci assiste riusciamo anche a vedere la simulazione del movimento delle anche che del gesto tecnico della marcia è il centro motore. Tutto parte da lì.

 

Bene, cari lettori, in queste due giornate giapponesi abbiamo cercato di carpire i pensieri e le conseguenti azioni degli atleti

 

 

L’atleta

 

Abbiamo visto atleti esultare ed altri piangere. 

Fa parte delle regole del gioco. L’onore all’avversario sconfitto è un dovere morale ed etico che ogni atleta deve avere. L’atleta vincente deve rispettare il perdente anche se questo costa un enorme sacrificio. 

Un giorno quando toccherà all’altro vincere (perché non si può vincere sempre in quanto la norma nello sport è un’alternanza fra vittorie e sconfitte) ne saremo ampiamente ripagati e capiremo anche il significato della parola “amicizia”.

 

Abbiamo visto atleti marciare divinamente, altri in maniera accettabile, altri ancora infrangendo platealmente le regole tecniche.

Abbiamo visto decine di palette colorate di giallo con due simboli strani dipinti sopra sbattute in faccia a qualcuno.

Abbiamo visto questo qualcuno far cenno di aver capito che quello era un aiuto che gli veniva dato ed altri continuare imperterriti come se nulla fosse accaduto. E ci siamo chiesti a che cosa avessero servito se colui che avrebbe dovuto essere il beneficiario di questo aiuto ha fatto finta di non aver capito ?

 

Abbiamo infine compreso il pianto di chi a 20m dal traguardo ha visto una paletta bianca indicare la zona di penalità che significava la perdita di una medaglia.

 

 

Il giudice

 

Fare il giudice non è per nulla facile. 

In primo luogo perché la velocità di esecuzione del gesto al di sotto di una certa soglia non è percepibile dall’occhio umano, in secondo luogo anche quando lo è l’immagine visiva che la nostra retina percepisce non sempre è quella che l’atleta ha effettivamente prodotto.

Ne sanno qualcosa anche i giudici dei tuffi e della ginnastica.

Ancora più difficile è poi riuscire a dominare nel nostro cervello quella che dovrebbe essere la “par condicio competitorum”: se ho segnalato l’errore a te, devo segnalare lo stesso identico errore a lui/lei. 

Chi riesce a farlo è un giudice rigoroso, chi a volte non riesce non sempre deve essere tacciato da incompetente, ma, come l’atleta, è solamente incappato in una giornata negativa.

 

A scanso di equivoci diciamo subito che la giuria di Sapporo (come quelle di Rio, di Londra e di Pechino) si è espressa in maniera meravigliosa cercando la salvaguardia della marcia migliore.

E questo è un successo di cui tutti dobbiamo essere orgogliosi: la marcia ha dimostrato di meritare di restare nel panorama olimpico in pieno diritto, e non solo per tradizione, ma anche per lo spettacolo messo in mostra

 

Fare il giudice è però entusiasmante. 

Ti da la possibilità di veder crescere il giovane atleta fino a quando, eventualmente, arriva a vincere il titolo olimpico. 

Ti da la possibilità di consigliarlo nel suo percorso di crescita, insomma di essere il suo consigliere, il suo amico al quale dare ascolto, il fratello maggiore dal quale imparare. Si instaurerà così un legame che viene da lontano e che perderà nel tempo anche nei nostri ricordi più intimi.

 

 

 

L’allenatore

 

Il pensiero di chi scrive è che l’allenatore debba essere il primario asse portante dello sviluppo di un giovane atleta.

 

Se vogliamo far crescere i nostri atleti e portarli verso un qualsiasi traguardo importante allora non basta che ci concentriamo sul cronometro. Il “credo” del tecnico non deve essere immutabile, perché l’obiettivo deve sempre essere l’equilibro fra le varie fasi e sfere dell’allenamento.

Sapporo ci ha pesantemente ricordato che un punto fondamentale è anche quello della tecnica, ma non solo. 

 

Questo significa che ci vuole qualcosa di molto di più da mettere nel paniere quotidiano di ognuno di noi.

Ci vuole il saper lavorare in sintonia con altre persone dalle svariate attitudini e competenze dalle quali magari attingere elementi che allʼinizio sembrano indifferenti, ma che in seguito si potranno definire le “cartine del tornasole” per la soluzione dei problemi.

Sono necessari rapporti di franca e serena continuità (o comunque di non ostilità o spregio) con ambienti diversi da quello tecnico, con gruppi di persone che ti facciano vedere anche lʼaltra parte della faccia della medaglia (un esperto corpo giudicante, un organizzatore continuativo nel tempo ed altri similari).

Non bastano quindi gli amici ed i fedelissimi compagni di sempre con i quali avevamo cominciato a marciare da giovani.

Non bastano perché già ci conoscono a fondo e, spesso per non dispiacerci, saranno sempre e comunque una platea a noi favorevole. Non cʼè nulla di peggio per un coach sentirsi sempre dire che la sua scelta (o il suo insegnamento) sono quelli giusti.

A volte bisogna avere il coraggio di ricredersi ad occhi aperti per migliorare: questo non significa ammettere di aver sbagliato, ma lʼesatto opposto. Significa avere la corretta “vision” di quello di cui abbiamo bisogno.

Cʼè bisogno quindi il continuo confronto sui temi tecnici e non solo sulle metodologie di allenamento.

 

Bisogna invece cercar di capire invece, se e quando “le palette gialle si sono alzate o i bollini rossi sono apparsi sul tabellone“, perché è accaduto, e comprendere altrettanto bene se a questa fattualità abbiamo anche contribuito noi con qualche nostro errore o insegnamento non consono.

Cʼè quindi bisogno di conoscere (e magari anche frequentare) chi allʼoccorrenza sappia indicarti e metterti in contatto con la persona giusta che, al momento giusto in presenza della tua necessità, ti possa aiutare a risolvere il tuo problema quotidiano.

Cʼè bisogno di chi, sapendo come stanno certe cose (e come normalmente si evolvono) per averle già vissute precedentemente, sappia mostrarti la strada o lʼiniziativa migliore affinché tu possa raggiungere il tuo scopo.

Cʼè bisogno insomma di qualcuno che si metta a tua disposizione, sul quale contare e con il cui confronto ti faccia vedere lʼaltra faccia della medaglia. C'è sempre un'altra faccia !

 

Bisogna anche far capire ai giovani atleti che è importante che al centro del loro progetto si siano sempre dei valori forti, e che non si fermino alla prima reazione avversa.

 

Tutto questo cari amici, non si identifica con il cronometro, ma con il confronto continuo, nel quale dare qualcosa per assorbire qualcosa dall’altro.

Un confronto vero nel quale entrambi abbiano la possibilità di crescere e quindi soggetto ad una sola condizione: quella di essere dettato da una mancanza di un reciproco interesse.

 

 

Conclusione

 

Speriamo di aver tutti compreso che siamo noi a dover dominare la palla rotonda.

Susana Feitor in un commento su un social qualche giorno fa ha indicato la strada nel fare gruppo. Concordiamo al 100%.

Se ci isoliamo, aiuteremo molto meno il movimento che invece ha ancora bisogno di crescere per sopravvivere e le medaglie raccolte nel passato finiranno nei cassetti e saranno solo un bel ricordo.

Solamente così avremmo amato veramente la marcia !